la sottile linea confusa fra cielo e mare.

La prima cosa.

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Boh.

Arrampicato sulla scogliera siciliana in una notte che sa di persempre ascolto in lontananza la chitarra pizzicata da Sandro.
La luna è così enorme, arancione, eccessiva che non provo nemmeno a fotografarla.
Come quelle repliche a teatro che una volta ogni tanto sono perfette, assolute.
E resteranno solo negli occhi e nel cuore degli spettatori presenti in sala.

Appoggio i piedi sul muretto di pietra ancora impregnata di sole.
Sento il caldo dalle caviglie, sale.

Boh.

Quando tutto è così bello io di solito piango.
Non è che mi dispero, scenate da funerale napoletano.
No.
Semplicemente mi metto in disparte e travaso un po’ di quel grumo di sensazioni in liquida realtà.

Penso che piangere della bellezza sia una forma di catarsi dalle brutture che siamo costretti a ingurgitare ogni giorno.
È un po’ come renderle omaggio, rito sacrificale alla perfezione.

Sono nel bello fino al collo. Ringrazio tutti i giorni per questo. Tutti.

Sto scrivendo un romanzo, il mio primo.
E la cosa bella è che si sta scrivendo un po’ da solo, con quello che succede intorno, con le parole di una canzona che passa, con le mail che non ti aspettavi di ricevere, coi ricordi che ti schiaffeggiano forte per quanto sono ancora vivi.
La mattina mangio il mio avocado come mi ha detto di fare Fiammetta e comincio a scrivere.
E appena mi siedo al tavolo penso: chissà che succederà oggi.

Perchè io sono solo uno strumento.
La storia che sta nascendo c’era già prima di me, cercava solo un canale per uscire allo scoperto.
E questo succede proprio nella vita, in tutti i campi, a tutte le persone creative.
Noi portiamo in giro destini di cui siamo inconsapevoli.
Noi ci prendiamo un sacco sul serio, soprattutto se siamo bravi a fare qualcosa.
Noi crediamo di creare qualcosa.
Invece no.

Noi possiamo solo aprire la testa e il cuore e lasciare passare.
Che tanto nel mondo c’è già tutto quello che serve. I film, le storie, i momenti sono stati già trasmessi.

Il nostro compito è quello di essere ricettivi, antenne sintonizzate con l’universo e captare quanto più di bello c’è.

Tipo io stasera. Dopo la lacrima davanti al mare confuso col cielo, dopo un confronto inaspettato, dopo aver condiviso un po’ di rabbia e un po’ di amore, comunque aperto, sono venuto sul terrazzo, quello più in alto.

E sotto un gruppetto di ulivi ho cominciato a scrivere. Senza sapere di cosa avrei scritto, dove stavo andando.
Dopo lo rileggo così magari me ne rendo conto anche io.
Adesso sono qui, illuminato da una luna quasi piena, in una notte di quasi mezza estate, io quasi felice, quasi nostalgico, quasi innamorato.

Boh.

Ti penso lo sai?
E penso a quei gesti che non ho fatto, quelle attenzioni che meritavi.
A quella volta che non ti sono venuto a prendere in stazione o all’areoporto.
A quando non ti ho abbracciato quando ne avevi bisogno.
A quanto non ho capito la tua fragilità e la tua gelosia.
A quando io era prima di noi.
A quando a tavola non ho spento il telefonino.
A quando ti ho ferito, consapevole di farlo.
A quando non ho avuto il tempo per le piccole cose che per te erano tutto.
A quando non ti ho detto quanto fossi felice che ci fossi.

Ma in tutte quelle singole volte, tutte, nessuna esclusa, tu eri la prima cosa.

Che cosa strana i rapporti.
Quanto invertono la tendenza in una frazione di secondo.
Quanto siamo presenti nella vita di una persona e poi di colpo spariamo.
Quanto abbiamo bisogno.
Quanto ci fanno paura.

Aprirsi, mostrare il fianco, consapevoli che stiamo rischiando tutto.
Scrivendo una lettera che non sai con quali occhi verrà letta.
E non ci puoi fare mica nulla. Fai del tuo meglio, sbagli, fai quel che puoi.
Però ci provi, con i tuoi mezzi.

Due anni fa, qui, ho scritto il pezzo più importante per me di tutto questo blog.
Si chiama “Meet me alla boa
E mi piacerebbe chiamare il libro così, ma non succederà, la mia editor me lo ha già detto, non funziona.
Al di là del dettaglio quel post è stato per me fondamentale.
Parla di una boa. Alla quale dobbiamo andare, di tanto in tanto, per avere un luogo sicuro dove scartavetrare tutte le maschere e a pelle viva dirci chi siamo.
Una boa in mezzo al mare, sospesi dal giudizio, dai condizionamenti, dal giusto o lo sbagliato.
Una boa che sia lontana, faticosa, infinita.

Addrizzo le antenne. È il momento di smettere di scrivere, chiudere gli occhi, respirare il mare, ascoltare il cuore e accettare quello che succede.
Perché tanto vale la pena di cercare di accordarsi al disegno che è stato progettato per noi, che tanto lì dobbiamo arrivare, non c’è nulla da fare.
Al di là delle nostre idee, dei nostri obbiettivi.
Al di là di noi che siamo solo piccoli grandiosi strumenti, ricettori di un flusso universale chiamato vita.

Lontano sulla spiaggia vedo i fuochi di questo Ferragosto.
Per una volta non farò feste strabordanti fino alle 6 di mattina.
Ma starò quassù, su questo cucuzzulo che è un vero dono di questa vita, con il mare che si confonde con il cielo e non riesci a capire dove inizia uno e finisce l’altro.

foto 3

Vorrei una storia d’amore così, confusa fra mare e cielo, senza capire dove inizia uno e finisce l’altro.
Vorrei che quella sottile linea d’orizzonte fosse impercettibile, il reale nel il sogno, l’alto nel basso, il concreto nell’astratto, io in te.

life is good.

Life’s good.

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Qualcuno si chiede perché scrivo così poco sul blog da qualche tempo a questa parte.
Altri se ne sbattono altamente.
Al primo gruppo posso solo dire che c’è un motivo e non si tratta di pigrizia.
E che spero prestissimo potrò spiegare meglio.
Al secondo che va benissimo così no? Da quando ho perso la speranza e l’illusione di poter piacere a tutti vivo un sacco più rilassato.

Ma oggi , specialmente oggi, non potevo fare a meno di essere qui, con voi.

Sono a Parigi.
È strano essere nella città del mio primo post su questo blog.

Toccato l’asfalto dell’aeroporto Charles de Gaulle il respiro mi si è cristallizzato nella trachea, come risucchiato in un sottovuoto.
Credevo di essere più forte, più controllato.
Invece, dentro, è ancora un bel casino.
Non ci tornavo da quasi tre anni da quando ero venuto a salutare Francesco.
Francesco è il motivo per cui io ora sono qui a scrivere e voi a leggere.
L’estate del 2011 mi aveva aperto questo blog, in un caldo ferragosto sulle colline toscane, su un amaca a righe verdi e bianche appesa a un ulivo secolare.

“Scrivi bene, lo capisco dai messaggi che mi mandi. Ci sai mettere dentro tutto, ironia e profondità. Credo tu debba scrivere.”

“Fra grazie, ma davvero non ho nulla da dire”

Ero in un momento piuttosto strano della mia vita, nella totale confusione, alla ricerca di una strada, di una costruzione di me, con un lavoro di attore che faticava ma che continuavo (e continuo) ad amare sopra ogni cosa.
Chi l’avrebbe mai detto che a quel foglio digitale bianco si sarebbero susseguite così tante opportunità.

Non avevo nulla da scrivere.
Non sapevo chi ero.
Non sapevo dove andare.

Poi in una serata di inizio ottobre, Francesco ha deciso di trasformarsi.
Ora non lo vedo con gli occhi, ma mi cammina accanto tutti i giorni.

Ricevetti una chiamata da Parigi.
Partimmo subito, tutti, ognuno a suo modo.
Fu il momento più difficile della mia vita.
Lo dico orgoglioso perché sono ancora qui e ancora sorrido. Anche più di prima.

Ognuno affronta il dolore come può.
Io non avevo la minima idea di come potessi farlo.

Andai a casa, dopo il funerale.
Mi misi a letto e presi il computer sulle gambe.
Sapevo che tanto non avrei dormito.
Non dormivo da una settimana. Nemmeno un minuto.
La mia notte era un soffitto bianco.

Magari su youtube trovo qualcosa che mi distragga un po’, pensai.
Lo apri.
Non era mai successo.
Automaticamente, la prima cosa che venne fuori, fu la pagina bianca di questo blog, pronta da scrivere, da riempire, da riversare del mare frastagliato di me che naufragava in quell’istante.

Io sono un fan dei segni. Se ci fosse un gruppo rock di nome “i segni” lo seguirei in tournee, tipo gruppies impazzita, facendomi tutti i concerti, gli after, le traversate in pullman e le magliette stampate.

“Questo è un segno”

Scrivere, finalmente sapendo di cosa.
Senza per altro nessuna intenzione di rendere pubblico il mio dolore.
Ma non sono un genio del computer.
Scrivevo su bozze e poi salvavo la bozza.
Non avendolo mai usato prima e mancando la persona che avrebbe dovuto insegnarmi il funzionamento non avevo realizzato che salva bozza su quel sito pubblicava il post.
Scrivere senza pensare che qualcuno ti legga forse è il modo migliore di scrivere.

Un giorno mi svegliai con la casella di posta elettronica intasata di mail di persone che stavano vivendo il dolore di una mancanza, di qualsiasi genere, dal fratello, a un amico, a un genitore.
Perché la mancanza ha la stessa radice, lo stesso odore.
Le mancanze ci appartengono, le mancanze si riconoscono.
Mi dicevano quasi tutti che il mio blog era diventato il modo per affrontare insieme quel momento, per non sentirsi soli.
Una ragazza in particolare mi chiese di andare al funerale del padre.
E ci andai. E fu incredibile lo scambio umano che ci può essere fra gli esseri umani.
Il sorriso di quella ragazza è uno dei più grandi regali che abbia mai ricevuto.

Anche questo mi sembrò un segno. E continuai a scrivere, con l’obbiettivo di trovare sempre un po’ di bello anche nelle giornate peggiori.
E alla facciaccia di chi ci vuole male, ci sono sempre (miracolosamente) riuscito.

Il primo post parlava di un cartello pubblicitario, l’unico che avevo notato nella selva convulsa dei cartelloni della periferia parigina.
Ne lessi uno, uno soltanto, anche quello doveva essere un segno.
LG life’s good.
Io l’ho letto come “Il bello della vita”.
Non mi importa se sia corretta o meno la traduzione.

Ho visto il mio segno. Dovevo cercare anche in quella giornata, mentre mi recavo all’istituto medico legale il bello che si nasconde nelle pieghe di questa vita.

Non sono più tornato a Parigi da allora.
Poi è bastata una scusa banale, un’incoscienza di un attimo e sono salito su quell’aereo, ancora una volta.
Sulla macchina che mi porta dall’aeroporto all’albergo li guardo tutti, con attenzione.
Voglio ritrovare il mio cartello, quello che mi ha cambiato la vita.
Mi metto pure gli occhiali, inclinandoli un po’ che ci vedo ancora meglio.
No, non c’è più.
Scoppio a ridere da solo, in macchina, mentre un pomposo driver parigino mi guarda con la coda dell’occhio.
Allora era davvero un segnale.
Era li, in quel momento, quando ne avevo bisogno.
Era li per darmi un messaggio, per indicarmi la via.

Sto leggendo un libro che mi ha regalato Marina prima di partire per Los Angeles.
Spiega come sia importante individuare i segnali che ci manda la vita, i suggerimenti.
Io già lo facevo, allora!

Sulla terrazza di un caro amico appesa sul cielo di Parigi guardo i fuochi del 14 luglio.
La bellezza qua non va ricercata, te la sbattono addosso con una preponderanza che non puoi che rimanere inerme e ringraziare di essere li, in quel momento a goderne.

Mi allontano dal gruppo festoso, in un angolo del terrazzo un po’ appartato.
Mi appoggio al davanzale e respiro la perfezione di quel momento.
Parigi, la notte, la luna, centinaia di candele, la tour Eiffel, i giochi di luci.

“E’ tutto perfetto, vero Fra? Grazie”

La macchina arriva puntuale mentre io salto sulla valigia per riuscire a chiuderla.
Poi un giorno mi spiegherete perché all’andata si chiudono e al ritorno no.
Non ho comprato nulla, giuro.
Corsa all’aeroporto.
“Gregory forse dobbiamo fare stradine alternative, sai? Ho l’aereo fra un’ora”
Ci infiliamo in un vicolo dietro Place Vandome. Lavori in corso, stanno rinnovando un palazzo.
La macchina si ferma, inchiodando di fianco ai pannelli che coprono alla vista i lavori.

“Cavolo lo perdo anche stavolta!”
Mi irrigidisco, nervoso nelle vene.
“Questi maledetti lav….”

Mi fermo. Guardo meglio.
Le palizzate sono ricoperte da una solo pubblicità.
Un intero palazzo nel centro di Parigi che dice cento volte “Life’s Good”

“Gregory tranquillo. Che lo perda o meno questo aereo, sarà sicuramente la cosa migliore che mi possa capitare.”

Ciao Fra.

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non l’ho mica perso alla fine.

anche su Elle.it

L’arte di aspettare.

Sono tante le luci da spegnere in questa casa nuova.
Faccio il giro, una a una.
Lascio solo quella di sale che colora di arancio la camera da letto.
Mi sento un po’ il Gobbo di Notre Dame, nel suo solitario rito serale, soffiando sulle candele della cattedrale di Parigi.

foto 1

Mi infilo sotto le coperte alla ricerca dell’abbraccio del piumone.
Guardo supino le travi bianche e il gioco di grigio che hai pensato tu.
Tutto intorno il silenzio della città che dorme, solo il camion di vetro che porta via storie rotte di tavolate chiassose.

Ti dò la buonanotte, sussurrando nell’aria il tuo soprannome, lettera per lettera.
Faccio un origami con la mente, uno di quegli areoplanini che mio fratello sapeva piegare meglio di me.
Anzi prendo proprio uno dei suoi che volano meglio, vanno più lontano.
Sopra quelle ali di carta le lettere prendono forma, quella del pilota.
Si sistema al posto di guida.
Pronti, tutti gli apparecchi controllati. Ora vai.
Esce dalla mia finestra e vola sui tetti incastrati di questa città un po’ mamma un po’ puttana.
Schiva J.Li (il mio gabbiano) che dorme appollaiato su una torretta color cachi, s’infratta giù per i vicoli stretti fino al ponte ormai deserto, poi su, verso il castello a salutare Angy, l’Angelo di Castel Sant’Angelo che mi guarda dalle finestre del salotto. Lo saluto tutti i giorni mentre faccio colazione sul terrazzo.
“Ciao Angy, buongiorno!”
Credo che stiamo diventando buoni amici, siano sulla buona strada, anche lui ve lo potrà confermare.
Bel trio comunque: io, un gabbiano solitario e un angelo di bronzo, affacciati sui tetti di Roma.
L’origami porge il saluto doveroso a chi di mestiere vola e poi finalmente va, libero, a destinazione.
Nemmeno lui sa qual è.
L’importante è farlo volare quell’aeroplano.
L’importante è dare quel soprannome che nasconde la faccia buffa dell’amore.
L’importante è aprire quella finestra.
Non sappiamo dove si poserà.
Accettiamo il rischio, tanto non possiamo fare altrimenti.

Chi se lo troverà domattina sul comodino o appoggiato sulle lenzuola stropicciate, che ne farà?
Ce lo chiederemo guardando quella finestra aperta, tenendola con decisione aperta.
Anche se fa un po’ freddo, anche se rischia che poi ci piove in casa, che con questo tempo non si sa mai.
Anche se è pericoloso, perché magari qualcuno può entrare in casa e rubare i ricordi.

Accettiamo il rischio, tanto non possiamo fare altrimenti.

Ci viene pure da sorridere perché pensavamo che per un po’ non avremo avuto bisogno di riaprirla quella finestra, di stare al caldo riparati nella nostra stanza, nella sicurezza che difende dal mondo.

Invece no, quella sicurezza non esiste, ci sei cascato un’altra volta.
E un’altra volta la vita ti dice di prendere quella benedetta asta, di infilare un piede dietro l’altro senza guardare giù e di stare in equilibrio su quel filo. Con leggerezza e sapendo di avere un cavo di sicurezza al quale potremo aggrapparci se il vento troppo forte ci farà sbilanciare.
E il vento arriva, e cadiamo.
Oscillando, un po’ graffiati, con qualche escoriazione, guarderemo finalmente giù.
Appesi come salami a quel filo.

Nella vita si cade.
E ci si rialza.
E più si cade più ci si rialza.
E ogni volta non ci ritroviamo con più equilibrio, no, ma diventiamo molto più bravi a rialzarci.

A penzoloni, con il cavo di sicurezza che mi ancora al mio equilibrio momentaneo, guardo il mio aeroplano, cioè quello che mi ha fatto mio fratello che è più bravo, che va veloce.
Con il mio amore sopra, con quel soprannome che fa da pilota.

Non so se lo faranno atterrare nell’aeroporto che vorrei, su quel comodino che penso giusto, in quelle lenzuola stropicciate che sanno di casa. Lo spero.
Ma so che quando noi quell’amore lo mandiamo fuori un modo per ritornare a noi lo trova sempre.

foto

Io, J.Li e Angy rimaniamo qui ad aspettare.
Che anche saper aspettare è un’arte.
Alla finestra, affacciati sui tetti di Roma con un caffè, lungo in tazza grande, ancora fumante.
Con il tramonto rosa di Roma intagliato dalle cupole delle chiese.
Con tanti gabbiani che volano intorno, ma non sono il mio. Il mio è solo uno e ha un nome.
Con il Tevere che si gonfia e sgonfia un po’ come gli pare. E fa bene.
Con i turisti con il sandalo e il calzino di spugna bianco e Nicola dell’alimentari sotto casa che ogni volta che passo mi fa provare un nuovo formaggio appena arrivato ed è talmente gentile che non me la sento di dirgli che sono intollerante ai latticini.
Con questa fune davanti, in questo circo in cui siamo trapezisti, lanciati in equilibrio a sfidare l’universo.
Con questa vita che proprio non ce la fa a prendersi una pausa, ma forse è questo il suo bello.

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Io, J.Li e Angy, carne, piume e bronzo, rimaniamo qui ad aspettare.
Che anche saper aspettare è un arte.

foto 3

English version

There are a lot of lights to switch off in this new house.
I go around, one by one.
I leave on just the salt lamp that colors of orange my bedroom.
I feel a little like the Hunchback of Notre-Dame, in his lonely night ritual, while he blows out the candles of the Parisian cathedral.
I get in bed searching for a hug from my duvet.
I stare at the white wooden beams and the grey pattern that you thought of.
All around I hear the silence of the city that sleeps, and just the glass-collecting truck that takes away broken stories of loud banquets.
I tell you goodnight, whispering your nickname, letter by letter.
I do paper-folds in my mind, one the those little planes that my brother could fold better than me.
I take one of his, they fly better and go farther.
Upon those paper wings, letters take shape, the pilot’s shape.
They get at the pilot’s seat.
Ready. Everything checked. Now the plane takes off.
It exits from my window and flies over the framed rooftops of this city, a little of a mommy and a little of a whore.
It dodges J.Li (my seagull) who sleeps upon a small khaki tower, goes down to the little ‘vicoli’ streets and to the deserted bridge, then back up at the castle to salute Angy, the angel of Castel Sant’Angelo who looks over at me from the living room windows. Every morning I say hi to it while I have breakfast on the terrace.
“Hi Angy, good morning!”
I think we’re becoming good friends, we’re on the right track, he can confirm it to you.
Nice trio anyhow: me, a lonely seagull and a bronze angel, looking out onto the rooftops of Rome.
The paper-fold plane dutifully salutes who else flies and finally goes, free, to destination.
It doesn’t even know what this is.
The important thing is to let that paper plane fly.
The important is to give that nickname that hides the funny face of love.
The important is to open that window.
We don’t now where it will land.
Accept the risk, we can’t do anything else anyhow.

Who will find it tomorrow morning on the bedside table or on the crumpled linens, what would they do with it?
We will ask ourselves, looking at that open window, keeping it fiercely open.
Even if it’s a bit cold. Even if it rains in – you never know with this weather.
Even if it’s dangerous, because maybe someone will sneak in and steal memories.

Accept the risk, we can’t do anything else anyhow.

We even feel like smiling because we thought we didn’t need to open that window for a while, we could stay warm sheltered in our room, in the safety that defends from the world.

But no, that safety doesn’t exist, you were fooled again.
Another time life tells you to take that damn beam and walk one foot after the other, keeping balance. With lightness and knowing that we have a safety rope if the wind gets too strong and threatens to make us fall.
The wind arrives, and we fall.
Swinging, a little scratched, with some excoriation, we will finally look down.
Hung like salami from that beam.

In life we fall.
And we stand back up.
And the more we fall the more we stand again.
Every time we don’t find more balance, no, but we get much better at getting back up.

Hanging, with the safety rope that anchors me at my temporary balance, I look at my plane, my brother’s actually, who made it better than me, and it flies fast. With my love on it, with that nickname in the shape of a pilot.

I don’t know if they’ll let it land at the airport I’d want, on that bedside table I think right, on those crumpled sheets that smell like home. I hope so.
But I know that when we send out that love, it always finds a way to come back.

Me, J.Li and Angy stay here and wait.
Knowing how to wait is an art.
At the window, looking out onto Rome’s rooftops with a long coffee in a big cup, still steamy.
With the pink Roman sunset cut by the churches’ domes.
With seagulls flying around, but they’re not mine. Mine is only one and it has a name.
With the Tiber that goes up and down as it pleases.
With the tourists wearing sandals with white socks and Nicola, of the grocery shop downstairs, who lets me taste a different kind of cheese every time I stop by, and he’s so kind that I don’t want to tell him that I’m intolerant to dairy.
With this beam in front of us, in this circus where we’re all trapeze artists, launched through balance to find the universe.
With this life that really can’t pause, and this is its beauty.

Me, J.Li and Angy, flesh, feathers and bronze, stay here and wait.
Because knowing how to wait is an art.